La civiltà occidentale, con riferimento specifico a quella europea, è sorta dall’identità dell’uomo con la propria città, che ha creato le basi per lo sviluppo sociale ed economico delle popolazioni. Ciò ha determinato da una parte la nascita delle città come spazio vitale di sviluppo della comunitas, ma soprattutto ha creato le basi per la costruzione di una propria identità culturale, che si è formata, non solo attraverso lo spazio, ma soprattutto attraverso la temporalità degli avvenimenti e dei fatti storici, riguardanti  soprattutto la città o il luogo di appartenenza. In questo senso spazio e tempo hanno dato origine, in Europa, alla civiltà occidentale e, quindi, alla civiltà urbana, che è l’espressione del rapporto fra l’uomo e il suo territorio. Territorio che poi diventa paesaggio e, quindi, spazio aperto per la comunità.


Il Santuario di San Michele

A qualificare e a contraddistinguere l’identità della propria città, in questo caso Monte Sant’Angelo e, quindi, della comunità, specie nel passato, sono stati alcuni temi collettivi, che hanno dato un volto e un’anima alla città, quel daimon che i Greci chiamavano lo spirito di una città, la sua anima, la sua identità storica e culturale. Fra questi temi collettivi, a cui la civitas europea ha fatto sempre riferimento, specie nei momenti più difficili e nei momenti di crisi, dobbiamo annoverare i santuari, le cattedrali, le chiese, i palazzi, le piazze, il centro storico, le mura cittadine, i monumenti in generale, il teatro comunale, i giardini pubblici.

 

Il Battistero di San Giovanni in Tumba

Nel nostro caso il Santuario micaelico, con le sue peculiari identità legate principalmente al culto e al pellegrinaggio cristiano, quali elementi essenziali della cultura religiosa occidentale, rappresenta l’essenza stessa della città di Monte Sant’Angelo. Così come, nel nostro caso, il Castello, rappresenta l’elemento essenziale del potere temporale, ma soprattutto del potere feudale, che ha condizionato la vita dell’Europa per quasi mille anni, dal IX secolo fino al XVIII secolo. E poi ancora i palazzi storici, le chiese, l’architettura, l’urbanistica, che si configurano principalmente nel cuore stesso della città, che è il Centro storico. Tutto questo, il suo patrimonio materiale, unito al patrimonio immateriale, fra cui le sue tradizioni popolari, forma la città, la sua identità storica, la sua anima, il suo daimon. In questo senso, ogni città è un’opera d’arte, in quanto la sua storia e la sua cultura si riflettono principalmente nel suo patrimonio storico-artistico oltre che monumentale. 

Il Castello

Temi collettivi che caratterizzano quasi tutte le città italiane, di cui la popolazione  non può fare a meno, se non vuole cancellare la sua memoria storica. Un patrimonio da preservare ad ogni costo.  lasciato le loro testimonianze. Civiltà e culture che sono state costruite nell’arco dei secoli e che hanno avuto come loro spinta propulsiva la creatività dell’uomo, la sua ricerca della bellezza. In questo senso, quando viene a scomparire un monumento, un palazzo storico, una chiesa, un quartiere, viene ad essere deturpato il volto e l’integrità della città intesa come arte e bellezza, e questo è ancora più grave se lo si rapporta alla perdita e alla morte del suo Centro storico, con la sua architettura e la sua anima popolare, della sua gente che è costretta ad allontanarsi, per motivi familiari, ma soprattutto per motivi di lavoro, tanto da perdere così l’anima dei luoghi, la loro bellezza, e quindi l’identità stessa della città. 

 

Il Centro storico: Largo Dauno

Purtroppo viviamo in un mondo in cui lo spirito della bellezza ha lasciato il posto all’economia, allo sfruttamento selvaggio e incondizionato della Natura,  tanto da uccidere la nostra sensibilità e la nostra storia millenaria legata alla città come opera d’arte.

 

La Piana di Macchia

 

Per questo si parla di città senza cultura, di città in abbandono, di crisi dell’identità e della ragion d’essere, là dove predominano solo distruzioni e superficialità, senza che si costruisca in maniera decente il futuro e, quindi, lo sviluppo delle potenzialità di un territorio. Una città priva della sua capacità di rinnovarsi e di rigenerarsi, attraverso una politica che abbia a cuore il destino della propria città. Purtroppo, quanto più andiamo avanti, ci accorgiamo che predominano, in noi,  i segni del progressivo disintegrarsi del sociale, del simbolico e soprattutto della funzionalità e della competenza, senza che si riesca a far emergere nuovi orizzonti, dove la gente possa ritrovare la sua direzione e, nello stesso tempo, la sua felicità. In questi senso, ci permettiamo di affermare che ogni città, per essere tale, deve avere in sè la ricerca della propria identità e considerare essa stessa come opera d’arte. E per fare questo c’è bisogno di creare le condizioni per un connubio fra cultura e politica, altrimenti, la sola politica, senza la cultura,  è destinata a fallire. In altri termini bisogna riacquistare il senso della comunità e, quindi, della partecipazione attiva verso la propria città e il proprio territorio, come per esempio nella scelta del futuro destino della Piana di Macchia, non delegando il tutto alla sola politica.

*Società di Storia Patria per la Puglia

 

Ho letto con piacere e interesse il libretto pubblicato da Andrea Pacilli Editore di Manfredonia e promosso dalla Green Cave di Monte Sant’Angelo, riguardante le Apparizioni di San Michele. Monte Gargano, Mont-Saint-Michel, Sacra in Val di Susa. Leggende agiografiche con introduzione, testo e traduzione,  di Immacolata Aulisa, docente di Storia del cristianesimo antico presso l’Università di Bari. Anche perché il contenuto del libretto mi ha riportato al tempo in cui mi sono laureato (1969-1970) proprio con una tesi di laurea riguardante Le Apparizioni e le origini del culto di San Michele sul Gargano nella critica storica. Quindi, un gradito ricordo dei miei primi studi riguardanti il culto di San Michele e lo sviluppo del pellegrinaggio cristiano nell’ambito degli itinerari religiosi fra Oriente ed Occidente, oggetto  del mio libro intitolato: Le Vie dell’Angelo. Itinerari per la Terra Santa, il Gargano, Roma e Santiago di Compostella (Bastogi Editrice Italiana, Foggia 1999). Un fenomeno, quello degli itinerari, che oggi è all’attenzione del mondo culturale, per far si che essi siano inseriti nell’ambito del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO. Così come è avvenuto per il nostro Santuario di San Michele, diventato, nel 2011, Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Un’attenzione che oggi è rivolta principalmente alla Via Francigena, di cui fa parte integrante la Via Sacra Langobardorum o Via Francigena del Sud o più specificatamente la Via Micaelica.

Foto Green Cave

Immacolata Aulisa, nel suo ultimo lavoro, si sofferma principalmente sulle “leggende di fondanzioni “ del Santuario di San Michele sul Gargano, di Mont-Saint-Michel e della Sacra in Val di Susa, attraverso l’analisi agiografica delle Apparitiones  e, quindi, dei documenti fondativi di questi tre grandi santuari della cristianità occidentale. Santuari che hanno caratterizzato il pellegrinaggio micaelico, non solo in età medievale, ma ancora tutt’oggi, tale da creare le premesse, per quella unità politico-culturale dell’Europa, che si costruisce principalmente lungo i grandi itinerari della fede. Itinerari che vanno dall’Inghilterra e precisamente da Canterbury, fino a Gerusalemme, passando attraverso la Francia, l’Italia e il Mediterraneo per giungere poi in Terra Santa. Una grande Linea Sacra di San Michele che ha dato origine a numerose fondazioni di insediamenti micaelici proprio lungo tale direttiva, con diversi altri “diverticula”, tanto da dare origine ad una vera e propria Via Micaelica o Vie Micaeliche, con santuari e chiese rupestri simili alla Grotta di San Michele sul Gargano. Immacolata Aulisa descrive la storia e la sacralità di tali luoghi, con riferimento specifico alle tre grandi Apparizioni di San Michele: sul Gargano, a Mont-Saint-Michel e nella Sacra in Val di Susa,  con  riferimenti al culto micaelico e alle leggende di fondazioni. E tutto ciò grazie alla formazione  culturale  specifica della dott.ssa Aulisa, i cui intessi si possono distinguere in due filoni: il primo, di carattere storico agiografico, riguardante  alcune vicende del culto di San Michele in Occidente; il secondo, storico letterario, incentrato sull’analisi dei rapporti tra giudei e cristiani tra II e VII secolo.

Per quel che riguarda il culto di San Michele in Occidente Immacolata Aulisa ha indagato i  rapporti tra il Santuario di Monte Sant’Angelo e quelli del Monte Tancia in Sabina, della Sacra di San Michele in Val di Susa, di Mont-Saint-Michel in Normandia, evidenziando lo stretto legame fra le diverse tradizioni cultuali micaeliche e, in qualche caso, il rapporto di filiazione tra il santuario garganico e altri santuari dedicati all’Angelo. Ha approfondito il rapporto tra il contesto territoriale e le caratteristiche che il culto micaelico ha di volta in volta assunto, incentrando la  ricerca su diverse opere di fondazione santuariale. È stata  relatrice e correlatrice di numerosi lavori di Tesi di Laurea (nei Corsi di Laurea Triennale e Magistrale). Ha preso parte, in qualità di Componente di Unità di ricerca (Università degli Studi di Bari) a diversi Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale (PRIN) finanziati dal Ministero dell'Università. Inoltre, in qualità di relatrice, ha partecipato a numerosi  convegni. Infine è autrice di diversi volumi e saggi, fra cui Tertulliano. Polemica con i giudei (Roma 1998); Dialogo di Papisco e Filone giudei con un monaco (Bari 2005), Les Juifs danz les récits chrétiens du Haut Moyen Ȃge (Paris 2015). Con Giorgio Otranto ha curato:  Santuari d’Italia. Puglia (Roma 2012) e Il santuario di San Michele sul Gargano. Tra storia e devozione (Bari 2012). È direttrice del Centro di Studi Micaelici e Garganci dell’Università di Bari, che purtroppo dal 2020 è stato chiuso.

Ritornando, quindi, all’ultima sua opera,  Apparizioni di San Michele (2021),  dobbiamo ringraziare, soprattutto, non solo l’Editore Andrea Pacilli, per l’ottima edizione del libro, quanto il Prof. Franco Salcuni, che da anni, ma oggi più che mai, con la nascita e lo sviluppo della Green Cave,  promuove, in maniera egregia la conoscenza e la valorizzazione del patrimonio storico-culturale non solo della città  Monte San’Angelo,  quanto dell’intero Gargano.

*Società di Storia Patria per la Puglia

 

 

 
 
 

Ancora un grande successo del Laboratorio teatrale “Ridere insieme...” del Centro Diurno “Genoveffa De Troia” di Monte Sant’Angelo, che, sotto la Regia di Michele Notarangelo, ha presentato presso il Chiostro delle Clarisse, l’opera  La Collina tra Masters e De Andrè”. Un’attività teatrale più che ventennale, di cui vede protagonisti  i componenti della Comunità del Centro Diurno attraverso cui viene portata avanti una ricerca sulla diversità, che esula i confini della retorica. “I frutti di questo lavoro, afferma Alemrac, vengono presentati al pubblico come un’occasione di confronto con i rimossi della società contemporanea e di relazione ad altri modi di essere”. La Collina rappresenta il luogo dove i personaggi che formano il racconto tratto dall’opera Spoon River del poeta statunitense Edgar Lee Master hanno trovato la loro sepoltura, accompagnato con musica e testi di Fabrizio de André. Due autori che hanno fatto delle loro opere una ragione di vita, raccontandoci il vissuto di uomini provati dal dolore  e dalle sofferenze che la vita ha posto loro lungo il cammino dell’esistenza. Una esistenza caratterizzata dalla emarginazione, dall’essere ultimi nel provare la gioia della vita, dall’essere partecipe del benessere, esclusi da ogni diritto e da ogni libertà.

Biagio Salcuni

L'Antologia di Spoon River è una raccolta di poesie in versi liberi scritta dal poeta statunitense Edgar Lee Masters e pubblicata tra il 1914 e il 1915 sul Mirror di Saint Louis. Ogni poesia racconta, in forma di epitaffio, la vita dei residenti dell'immaginario paesino di Spoon River (il cui nome deriva da quello di un omonimo fiume realmente esistente, che scorre vicino a Lewistown, città di residenza di Masters), sepolti sulla collina nel cimitero locale. Lo scopo di Masters è quello di demistificare la realtà di una piccola cittadina rurale americana. La caratteristica saliente dei personaggi di Edgar Lee Masters, infatti, è che, essendo per la maggior parte morti, non hanno più niente da perdere e quindi possono dire qualsiasi cosa sulla loro vita, vissuta ai margini della società, in assoluta sincerità. Il cantautore Fabrizio De André lesse Spoon River nel 1970, rivedendosi in alcuni personaggi e scelse nove poesie dall'intera raccolta e ne trasse liberamente dei testi e scrisse delle basi musicali per essi.

La Collina rappresenta l’intermezzo fra la Vita e la More, fra il Cielo e la Terra, fra il Bello e il Brutto, fra l’Uomo e la Natura. Il Cielo come espressione dello Spirito e la Terra come espressione dell’Uomo, con i suoi limiti, le sue fragilità, le sue passioni, i suoi dolori, le sue sofferenze quotidiane. La Collina come il mondo di mezzo, dove il Male si contrappone al  Bene, per sopraffarlo e rendere l’Uomo schiavo delle sue passioni e dei suoi istinti  di distruzione.

Carmela Granatiero

Ne viene fuori, nei racconti dei personaggi tratti non solo dal passato di Spoon River, ma anche del presente, la società contemporanea, con le sue problematiche, i suoi mali che ritroviamo nel razzismo,  nella disuguaglianza, nella povertà, oltre che nella incapacità di vivere una vita normale, fatta solo di privazione e di malattie. Una umanità sofferente, che attraverso i personaggi de  La Collina, anche dopo la morte, viene a galla e ci  dà il senso della solitudine e della sofferenza umana.

Tutta l’opera teatrale è caratterizzata dalla presenza della morte, che ritroviamo lungo i sentieri della vita e di cui gli attori hanno saputo darci la dimensione umana, attraverso il loro pathos e la loro grande professionalità di recitazione, sotto la guida di Michele Notarangelo. Afferma a tale proposito Matteo Notarangelo: “ Il lavoro teatrale è un dramma “dialogante” e ha lo scopo di dar vita ai nuovi mondi inclusivi, per scongiurare ogni forma di discriminazione etnica o sociale. Questo impegno drammaturgico è l’invito a guardare e riguardare i vissuti dell’uomo e degli uomini per vederli, comprenderli e modificarli”.

Maria Pia Campobasso

Di grande spessore culturale è stata la presentazione dell’opera da parte di Matteo Gabriele, con la partecipazione simultanea di Franco Nasuti, la quale voluto mettere in evidenza l’alto valore simbolico dell’opera, con riferimenti al significato dell’amore per gli ultimi, quelli che vivono ai margini della società, e che purtroppo oggi vengono tenuti esclusi da ogni benessere, in un mondo che vede solo il profitto e l’arrivismo. Una poetica, espressa nell’opera La Collina, che pone al centro del suo racconto, il vissuto di tanta gente, costretta a subire la vita attraverso l’odio, la sofferenza,  le malattie, la schiavitù, il razzismo e ogni forma di sfruttamento da parte dei cosiddetti “sovrastanti”, termine di cui ha fatto menzione Franco Nasuti a proposito dell’opera musicale di Matteo Salvatore  e di Fabrizio de André, di cui sono stati eccellenti interpreti i giovani  William Prencipe e Raffaele Pio Fidanza.

Ma un elogio spetta a tutto il gruppo di attori che fanno parte del Laboratorio teatrale “Ridere insieme…”: Biagio Salcuni, Tommaso   Gentile, Cinzia Castriotta, Carmela Granatiero, Maria Pia Campobasso, Felice Bisceglia, Giacomo Calabrese, Antonio Pistacchi, Matteo Notarangelo che,  coadiuvati da Nicola Notarangelo, che ne ha adattato il testo e da Michele Notarangelo, nella qualità di Regista, con l’elaborazione grafica di Maurizio Totaro e con le luci di Antonella Armillotta, hanno fatto si che il pubblico, nelle due edizioni del 20 e del 23 Agosto, apprezzasse l’opera e ne decretasse il successo.


Felice Bisceglia e Tommaso Gentile

Un’opera che non appartiene solo agli Autori  e ai suoi personaggi, ma che appartiene a tutti, in quanto in ognuno di loro, noi stessi ci vediamo riflessi, ne siamo parte, in quanto storie di uomini vissuti con i loro amori, le loro passioni, le loro sofferenze, le loro gioie, i loro odi e i loro sogni. In questo senso l’opera La Collina è un'opera che appartiene a tutti noi, in quanto ci fa scoprire il senso della vita attraverso il vissuto di ognuno dei personaggi rappresentati, che poi siamo noi stessi, specie, oggi, in cui il mondo è attraversato da odi etnici, di differenze di religioni, di emigrazioni di interi popoli, con morti che galleggiano sulle acque del nostro Mediterraneo, un tempo simbolo di civiltà e di incontri fra i popoli. 

Cinzia Castriotta

Di tutti ciò vi sono testimonianze di tanti morti, come George Floyd, Amina, Samir, che ci raccontano la loro vita stando fermi lungo i sentieri della Collina, ad ammonirci delle ingiustizie del mondo, le ineguaglianze del nostro vissuto contemporaneo. 

A proposito di Salute Mentale, dall’11 al 16 Settembre, presso il Resort di Vieste-Pugnochiuso, si svolgerà il Meeting Nazionale dell’ANPIS (Associazione Nazionale per l’Inclusione Sociale) avendo come tema: Sottosopra, a cui parteciperanno diversi operatori del settore, oltre che la Compagnia teatrale  Ridere Insieme…del Centro diurno “Geneveffa De Troia” di Monte Sant’Angelo.

 
*Società di Storia Patria per la Puglia  

 

 

a cura del prof. Giuseppe Piemontese - Società di Storia Patria per la Puglia.

Domenico Di Iasio, con il suo libro  Ineguaglianze e Natura (Andrea Pacilli Editore, Manfredonia 2021), continua il suo percorso critico-filosofico della società contemporanea, con specifico riferimento all’età della globalizzazione e, quindi, ai tanti problemi che essa oggi ci presenta, specie dopo lo scoppio della pandemia da Covid-19, che ha messo in evidenza gli aspetti  negativi della società contemporanea, puntando il dito soprattutto su due fenomeni oggi di grane attualità: il problema della disuguaglianza e il problema del cambiamento climatico, con specifico riferimento alla distruzione della Natura e, quindi, al problema riguardante il processo antropocentrico della civiltà dell’uomo. Due problemi che ritroviamo nella sua ultima opera e che, in un certo qual modo, fa da continuazione con gli altri suoi volumi, fra cui  Ripensare la povertà (2007), La virtù dell’altruismo (2015), Stupidità e Potere (2018). Apre il discorso sulla disuguaglianza l’esame del pensiero del filosofo francese Jacques Rousseau, il quale tiene a sottolineare che “se nella società civile insorgono ineguaglianze, di ricchezza o di stato sociale, queste discendono dall’arbitrio non già dal diritto naturale” (p. 18). Per poi far riferimento al pensiero economicistico di John Maynard Keynes, il quale afferma che “i difetti più evidenti della Società economica nella quale viviamo sono l’incapacità a provvedere la piena occupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi” (p. 21). Concetto ribadito anche da Thomas Piketty, il qual sostiene che “l’accumulazione del capitale comincia a volte con la rapina, e l’arbitrio del suo rendimento torna sovente a perpetuare il furto iniziale” (p. 23).  

Tutto ciò purtroppo è il frutto o la conseguenza del pensiero neoliberista, che ha avuto come suo fondatore Friedrich A. Hayek  sulla scia del suo Maestro Ludwig von Mises, il quale nel 1973 affermò a chiare lettere che “non esistono principi generali di giustizia distributiva”, tanto da creare le premesse per far saltare il principio classico, di origine aristotelica, della giustizia sociale. Del resto è sotto gli occhi di tutti che nell’era della globalizzazione e, quindi, del neoliberismo, l’aumento della ricchezza globale non riduce la povertà come sarebbe naturale, ma la incrementa, riproponendo il tema della fame nel mondo. Purtroppo l’attuale pandemia da Covid-19 ha fatto aumentare il divario fra ricchi e poveri, fra continenti, fra gli stessi strati sociali, colpendo soprattutto gli anziani e i diseredati  homeless, la popolazione  più debole ed esposta ai maggiori disagi esistenziali.

In seguito l’Autore si sofferma su alcuni concetti politico-filosofici, come il significato di epochè a proposito di ricerca della verità e, quindi, del significato dell’esistenza, del ruolo della politica nei confronti delle future generazioni, del significato di cosmopolitismo e dell’ecumenismo, in una società multiculturale, in cui le varie etnie si incontrano, anche se differenti nei confronti delle varie religioni. Tanto da produrre poi le cosiddette “guerre di religioni”, nate non solo dal fanatismo, ma soprattutto dalla mancanza di inclusione. E infine le nuove contraddizioni del capitalismo o neoliberismo, che non riguardano più la lotta di classe, quanto la sostenibilità ambientale della crescita economica.

Siamo così nella seconda parte del libro, in cui Domenico Di Iasio pone la sua attenzione sul rapporto fra crescita economica  e Natura, sulla crisi ambientale e sullo sviluppo economico neocapitalistico, che, secondo l’Autore, si basa soprattutto sul consumo della Natura. Infatti, afferma D. Di Iasio: “Stiamo assistendo ad una continua, sembra ormai inarrestabile, opera di distruzione dell’assetto naturale delle cose così come lo abbiamo ricevuto dai nostri progenitori. La questione del cambiamento climatico (climate chainge), ne è una testimonianza schiacciante che molti governanti continua a negare o a far apparire naturali processi innaturali come la continua estrazione di combustibili fossili. Le altre fonti di energia (vento, sole, acqua, legno, geotermia, etc.) sono poco sfruttate perché evidentemente generano meno  profitti e richiedono investimenti importanti” (p. 12). Nuove contraddizioni che si manifestano soprattutto nelle varie discriminazioni di sviluppo del neocapitalismo e, quindi, della conoscenza, tale per esempio nella didattica a distanza in periodo di pandemia, tale da sacrificare la socialità e la formazione integrale dell’alunno. Per non parlare poi degli studenti disabili, per i quali la scuola ha totalmente fallito. In questo senso si può parlare di morte dell’umanesimo e, quindi, dell’uomo. Il comune denominatore che accumuna i nuovi capitalismi è il consumo di natura. “In nessuna parte del mondo, afferma Di Iasio, c’è stato sviluppo senza questo tipo di consumo, anche in Cina, sicchè la contraddizione tra crescita economica e ambiente, la prima delle due contraddizioni che abbiamo isolato, è di una tale gravità che dovrebbe spingere i governi a prendere decisioni serie per ridurre gli effetti disastrosi della crescita economica. Uno di questi effetti è l’inquinamento atmosferico e le emissioni di gas serra” (p. 73). A tale proposito vi sono diversi autori che propongono nuove forme di capitalismo.

Fra questi Ugur Sahin e Ozlem Tureci, Muhammad Yunus, che propongono un capitalismo buono attraverso l’imprenditoria sociale e il microcredito. E ancora Mariana Mazzucato, attraverso lo Stato imprenditore; Alain Caillé, con la sua  Critica della ragione utilitaria, e infine l’etica del dono. Da tutto ciò nasce l’esigenza di avviare un processo di metamorfosi della natura, cioè “la trasformazione radicale del concetto di natura nella modernità attraverso gli strumenti della tecnica. Una trasformazione che ha determinato un atteggiamento diverso da parte dell’uomo, orientato meno alla contemplazione e al godimento della natura che alla sua utilizzazione, al suo sfruttamento” (p. 87).  Tutto ciò è il frutto del pensiero greco-romano, della concezione giudaico-cristiana, acquisito poi dalla modernità, che ha come fondamento il pensiero filosofico di Francesco Bacone, da cui nasce l’Illuminismo e, quindi, lo sviluppo industriale e infine il Capitalismo. Quindi dobbiamo ritornare ala Natura, intesa come “Ambiente di vita”, di cui Domenico Di Iasio è stato uno dei teorici, allorquando, insieme ad altri filosofi, ha affrontato il problema:  Filosofia e ambiente di vita (1995). Ambiente di vita come sinonimo di biodiversità, in cui hanno posto e quindi vita la totalità delle specie viventi in natura, sia animali che vegetali. Mentre assistiamo giorno dopo giorno alla distruzione di centinaie di specie animali nel mondo. “La natura, dunque, afferma Di Iasio, come corpo vivente complessivo, che rende possibile la vita anche al nostro corpo singolarmente considerato. La questione è che oggi la filosofia è radicalmente messa da parte e certe riflessioni, come questa spinoziana sulla natura, vengono anch’esse accantonate. Ma non è il momento di procedere in tal senso, afferma sempre Di Iasio, anzi è il momento storico di procedere esattamente nel senso contrario, facendo tesoro di molte riflessioni filosofiche sulla natura e sull’uomo che in essa vive” (p. 102).

Oggi il neoliberismo è in  crisi e bisogna costruire, almeno idealmente, modelli alternativi di sviluppo, pensando alla salvezza del pianeta. Afferma Di Iasio: “Basterebbe “imitare la natura” per risolvere i problemi ambientali che ci attanagliano oggi. La natura è di per sé un sistema vivente, ce lo ha insegnato Spinoza. È come una persona e come tale andrebbe rispettata. Comprendere questa cosa, però, è tutt’altro che semplice. Si tratta di un’operazione concettuale che implica una rivoluzione autentica nel pensiero e nel modello globale di sviluppo economico, in un momento storico in cui il  deficit di pensiero è veramente dilagante” (p. 109). Bisogna ormai tendere verso lo sviluppo sostenibile, sconfiggendo così la stupidità dilagante del nostro sistema  economico basato sul carbone fossile e sul profitto ad ogni costo. In questo modo noi dobbiamo assecondare la natura, i suoi ritmi naturali, la sua biodiversità, la sua biomimesis, in altre parole la bioeconomia. Cioè il sole, il vento, l’acqua, il legname (Orazio la Marca). Tutto ciò porta a rivalutare e a considerare come elemento fondamentale per la vita dell’uomo il territorio e, quindi, lo sviluppo locale, che deve essere collegato, in stretta simbiosi, con lo sviluppo sostenibile. Sviluppo locale, inteso come rivalutazione dell’ecosistema collegato alla storia territoriale dei luoghi e quindi delle comunità. E ciò è in contrapposizione con lo sviluppo globale e, quindi, della globalizzazione in generale che tende ad annullare ogni riferimento identitario dei luoghi e delle sue comunità. In altre parole bisogna difendere le specificità territoriali, che con la globalizzazione hanno perso di importanza, creando spesso disoccupazione e disastri ingenti alla natura, In questo senso bisogna andare verso l’economia circolare, con l’intento di limitare i danni derivanti dall’uso dell’anidride carbonica in atmosfera. Tema oggi molto dibattuto che ci porta verso uno sviluppo più equo e sostenibile, con nuove fonti di energie pulite, come per esempio l’idrogeno. Quindi, uno sviluppo resiliente eco-creazione. Due categorie economiche che purtroppo sono state lasciate fuori dal pensiero neoliberista e che l’economista Mariana Mazzucato ha oggi ripreso per contrastare lo Stato padrone e liberista, in contrapposizione allo Stato sociale e al Welfare. Una resilienza che privilegia il sociale e, quindi, le comunità e i loro valori, fra cui una società efficiente e la lotta alle disuguaglianze e alla povertà, la crisi climatica e uno sviluppo equo a livello territoriale. Afferma Domenico Di Iasio: “È tempo di cambiare rotta e la metodologia è quella della concertazione tra le forze del mercato, i sindacati e il governo, che non svolge più la parte dello spettatore ma dell’imprenditore che guarda agli interessi della comunità” (p. 137). In questo senso bisogna passare dall’homo aeconomicus all’homo bioaeconomicus.

In questa dinamica del profitto ad ogni costo e, quindi, del considerare il ruolo dello Stato marginale rispetto allo sviluppo economico e sociale, assistiamo progressivamente al tramonto della civiltà occidentale dei suoi valori di progresso, di libertà, di democrazia, di giustizia sociale, di equa distribuzione della ricchezza. Valori che oggi sono in pericolo, rispetto ad una società globalizzata e, quindi, omologata solo a trarre quanto più è possibile profitti e ricchezze per pochi. E ciò contro ogni forma di inclusione, in nome dell’individualismo, di autoritarismo e di populismo. “È tempo, afferma Domenico Di Iasio, di un nuovo risveglio dell’Occidente. Occorre azionare la leva culturale, animare un grande dibattito politico-culturale, per rinvigorire i valori di fondo dell’Occidente, da quelli cristiani a quelli liberali, per rimettere al centro il valore supremo del bene comune, oscurato dall’ombra ideologica dell’individualismo neoliberistico” (p. 158), Occorre, in altre parole, reinventare “la buona politica”, capace, sottolinea Donatella Di Cesare, “di sostenere e alimentare il senso della comunità” per il bene comune.  Conclude D. Di Iasio: “La storia poi, contestualmente all’affermarsi delle teorie neoliberiste, è andata esattamente nella direzione contraria e il “principio di differenza” è saltato non perché, come principio di solidarietà, non sia giusto in sé, ma perché si sono progressivamente affermati, in Occidente in particolare, gruppi monopolistici e multinazionali che hanno portato avanti una logica spietata neocapitalistica a danno della società, sempre più lacerata e divisa, e della Natura, sempre più sfruttata e oltraggiata. Le ineguaglianze, anziché ridursi com’era nelle intenzioni di Rawls, sono drasticamente aumentate e “quelli che stanno meno bene” continuano a stare peggio, a tal punto che miliardi di persone nel Sud del mondo rischiano di non riuscire a vaccinarsi nemmeno nel 2021” (p. 164). Occorre, quindi, reinventare  l’uomo e il suo rapporto con la Natura, combattendo o limitando al massimo, le ineguaglianze e le ingiustizie sociali, culturali ed economiche. E per fare tutto ciò, c’è una sola strada: applicare, come afferma Jonas, l’etica della responsabilità, non solo  nei confronti della comunità, ma della Natura, che ci apre le braccia, ci accoglie nel suo seno e ci fa vivere.

 

Dalla parte della gente perbene

a cura del prof. Giuseppe Piemontese - Società di Storia Patria per la Puglia.

L’attuale situazione socio-politica dell’intera Capitanata, ci porta ad esaminare l’intero contesto sociale delle città daune, ma in particolare quello del Gargano, per anni identificato con la “quarta mafia”, senza che si prenda in considerazione che la maggior parte della comunità garganica è estranea a tale fenomeno. Tutti sanno che la mafia garganica è scaturita da una faida interna  fra alcune famiglie agro-pastorali, tale da creare i presupposti per far sì che ogni offesa potesse essere saldata con l’uccisione o l’eliminazione del rivale. A tale assunto la comunità garganica nella sua generalità è stata quasi sempre estranea e ha condannato sempre ogni abuso e ricorso alla violenza. Purtroppo ciò non è bastato a fermare le numerose uccisioni fra i clan garganici, tanto da allargarsi poi a quelli dell’intera Capitanata. Tale fenomeno ha gettato un’ombra nefasta sull’intera comunità, tanto che oggi, quando si parla di “quarta mafia”, subito si fa riferimento all’intero contesto socio-economico, non solo della città di Monte Sant’Angelo, ma anche di Manfredonia, Vieste, Sannicandro Garganico, San Severo giungendo poi al capoluogo di Foggia.

In tutto questo, purtroppo, ciò che rende grave la situazione è il coinvolgimento, in parte, della politica e, quindi, delle istituzioni, attraverso i suoi rappresentanti, tanto da gettare discredito su una intera classe politica degli ultimi vent’anni, che poi ha portare allo scioglimento di diversi comuni garganici e dauni, fra cui Monte San’Angelo, Cerignola, Mattinata, Manfredonia, e probabilmente anche Foggia. Del resto in questi ultimi anni la classe politica, a dire il vero, ha mostrato poca serietà e poca moralità, tanto da giungere, come abbiamo detto, allo scioglimento di vari comuni. Tutto ciò è molto grave sul piano istituzionale e sul piano politico-culturale, tanto da ripercuotesi su una intera comunità che purtroppo ne subisce le conseguenze. Vedi per esempio la crisi occupazionale in varie città della Capitanata, fra cui l’emigrazione di tanti giovani verso il Nord, tanto da coinvolgere intere famiglie del ceto medio. Fenomeno che, secondo noi, è da imputarsi, non solo alla criminalità organizzata, ma anche alla mancanza di progettualità da parte  della politica e, quindi, delle istituzioni, nonché da parte anche della classe imprenditoriale, che spesso ne condiziona sia la politica che il malaffare. Gente che è abituata a ricattare e a minacciare, mettendo in cattiva luce l’intera comunità locale, che spesso è estranea a tale contesto e, quindi, alla stessa criminalità organizzata. Gente senza moralità e senza principi etici, che purtroppo oggi la troviamo non solo nell’organizzazione mafiosa, ma anche in altre parti, tanto da creare i presupposti per una profonda crisi di fiducia della gente nella stessa politica e, quindi, nelle stesse istituzioni, il cui compito dovrebbe essere quello della giustizia sociale e della equità territoriale.

Agendo in questo modo, oggi, si offende l’onore e la dignità di una intera comunità, che secondo noi, per la maggior parte è estranea ad ogni azione basata sulla prevaricazione dei propri diritti e dei propri doveri. Né a tale proposito i mezzi di comunicazione, come la TV e i giornali, riescono a spiegare, su basi scientifiche il fenomeno della criminalità mafiosa del Gargano, se non con una generale identificazione fra Gargano=Mafia o viceversa. E oggi purtroppo ci troviamo anche ad affrontare l’utilizzo del cinema per quanto riguarda un probabile film sulla Mafia Garganica da parte di alcuni registi, che si vogliono mettere in mostra, senza una dovuta preparazione sociologica del fenomeno.

Purtroppo, uno dei grossi problemi che attanaglia la Capitanata, oggi, è la mancanza di lavoro, ma soprattutto l’assenza di una classe intellettuale che potesse far sentire alta la propria voce e ne spiegasse le ragioni e le cause che hanno determinato la nascita del fenomeno mafioso in terra garganica. In altri termini, oggi, i migliori elementi più qualificati sul piano  culturale e sociale, vengono emarginati non tanto dal potere mafioso, quanto soprattutto del potere politico e, quindi, dalle istituzioni, che governano le città, tanto da fare terra bruciata intorno ad esse, con la loro sete di potere, a danno della democrazia e della partecipazione della comunità nella gestione della cosa pubblica. Ormai, a livello generale, la politica non è più al servizio della comunità, ma solo al servizio di pochi che si credono padroni di ogni cosa, mentre si continua a fare e a svolgere  passerelle con i soldi pubblici. Del resto, quando in una istituzione, mancano democrazia, partecipazione, condivisione, dibattito critico, principi etici e morali, nonché  l’abolizione di regolamenti e ordinamenti istituzionali, come la Consulta della Cultura a Monte Sant’Angelo, tutto diventa funzionale ad una realtà che, invece di essere inclusiva,  è esclusiva, presi come sono  nella loro sete di potere.

Ritornando al possibile film sulla Mafia Garganica, non vorremmo che la finalità fosse sola quella di identificare la comunità garganica con il fenomeno criminoso della mafia locale, di cui, secondo noi, è solo un fenomeno circoscritto, di violenza fra famiglie mafiose e quindi criminali.

Oggi è giunta l’ora di far sentire, da parte di tutte le popolazioni locali, il proprio disprezzo e lo sdegno verso tutti quelli che usano il potere mafioso e il potere politico a fini propri, danneggiando così in maniera deleteria la dignità e l’onorabilità di un popolo e di intere città, che nel passato si sono distinte per Storia, Cultura, Civiltà e Onorabilità.

 

L’attuale situazione politico-istituzionale, in conseguenza anche della pandemia, ci porta ad esaminare il concetto di comunità su cui si esercita il mandato istituzionale dei partiti e in genere della politica. Un aspetto che oggi denota una separazione netta fra comunità e politica, tanto da mandare in crisi l’intero sistema istituzionale non solo dello Stato, ma anche delle città, su cui si abbatte con violenza la crisi socio-economica. Purtroppo sono diversi anni che si parla di crisi delle istituzioni e, quindi, della rappresentanza politica in seno alla società, tanto da creare uno iato o separazione fra i partiti e la società, fra la politica e la comunità, che in un sistema democratico, dovrebbero essere al centro di ogni progetto di sviluppo e di consenso. Purtroppo ciò è venuto meno, tanto da dare origini a nuovi partiti o movimenti, che in nome del popolo, si sono costituiti per governare le città e le nazioni. Da tutto ciò sono nati gli ultimi movimenti politici che si identificano, da una parte nel sovranismo e nell’altra nel populismo, i cui movimenti stanno condizionando a vari livelli gli Stati occidentali, dall’Europa agli Stati Uniti d’America, con conseguenze che purtroppo ancora non riusciamo a delineare e, quindi, a valutare. Da tutto ciò nasce quindi la convinzione che la civiltà occidentale, fondata sulla modernità e, quindi, su determinati valori legati all’Illuminismo, come il progresso, l’uso della ragione, la libertà, la democrazia, la parità dei diritti, il pensiero filosofico e scientifico, è ormai al tramonto, in un processo di declino, tanto da andar incontro ad una vera e propria apocalisse. Infatti, vari scrittori, filosofi, sociologi, economisti, politici, parlano di umanità perduta, di tramonto dell’uomo, di un mondo senza “noi”, di stato di paura, di un mondo liquido e non più solido. In altri termini di un mondo fuori controllo, con una crescente disuguaglianza sociale e culturale, il  tutto in un mondo diventato sempre più complesso e più  difficile da comprendere e governare. Una complessità che abbraccia molteplici problemi di ordine sociale, culturale, economico, politico e istituzionale.

Per non parlare poi dei gravi fenomeni legati, per esempio, alle migrazioni, al surriscaldamento climatico e infine alla nascita di stati autoritari, anche se ancora non sono diventati dei veri regimi. Del resto è sotto gli occhi di tutti la crisi dell’Unione Europea, specie dopo che gli inglesi hanno scelto di uscire fuori dall’Europa, decretando la Brexit. Ma altri fenomeni sono legati a forme estreme di autoritarismo, che oggi si nascondono sotto la formula di populismo e di sovranismo.  In questo capitolo vogliamo soffermare la nostra attenzione su un volume pubblicato nel 2019 dall’Università Bocconi di Milano, di cui è autore Raghuram Rajan, intitolato Il terzo pilastro. La comunità dimenticata da Stato e mercati (EGEA, Università Bocconi Editore, Milano 2019), in cui l’Autore pone l’attenzione su tre fenomeni legati al mondo d’oggi: lo Stato, il Mercato e la Comunità. Rajan spiega perché il capitalismo abbia funzionato per più di sessant’anni e ora esso sia in crisi. Inoltre afferma che in questi ultimi anni il Mercato e lo Stato si siano sviluppati in mondo abnorme a discapito della Comunità.

Del resto si è potuto constatare che specialmente il mondo occidentale, Stati Uniti e  Paesi europei, hanno privilegiato una economia basata prevalentemente sul capitalismo e sul libero mercato, tanto da sviluppare in maniera esponenziale il cosiddetto neoliberalismo, limitando gradualmente, da una parte, l’autonomia degli Stati, ormai prigionieri del libero mercato e dall’altra decretando la fine del concetto di società e, quindi, di comunità, verso cui il libero mercato è rivolto. Un’azione più che di salvaguardia della comunità, quanto di assoggettamento di essa alle regole del profitto e dell’arricchimento del mondo finanziario, basato sulle banche e sui grandi monopoli finanziari. Monopoli che hanno finito per destabilizzare il potere non solo dei singoli Stati, ma soprattutto il potere decisionale delle comunità, che si sono viste private del loro consenso. E tutto ciò nell’ambito di una progressiva rivoluzione tecnologica, legata da una parte al mondo dell’informatica e, quindi, al mondo finanziario, che utilizza la tecnica per fini propri, e dall’altra alla nascita, specie dagli anni ’80 del Novecento, allo sviluppo della globalizzazione. Quest’ultimo fenomeno ha accelerato e perfezionato le leggi legate al libero mercato, tanto da essere considerato come l’ultimo stadio del capitalismo postmoderno.

Secondo Rajan lo squilibrio fra i tre pilastri del mondo è molto forte. “Mercato e Stato, afferma Stefano Ugolini, sono oggi molto forti, mentre la dimensione locale è diventata troppo debole. Le comunità, da sempre fondamentali nell’organizzazione delle civiltà umane, sono state prima spolpate dal crescente strapotere dello Stato fino alla metà del Novecento, poi definitivamente divelte dalla globalizzazione e dalla rivoluzione telematica. Questi fenomeni hanno ridotto all’osso le relazioni di prossimità e prodotto una sempre più netta segregazione sociale, creando quelle larghissime sacche di disperazione (nei ghetti urbani e nelle aree  rurali) che sono oggi i granai dei demagoghi populisti: lo sradicamento dalle comunità reali di origine ha infatti incoraggiato i vinti della globalizzazione a ricercare protezione nelle nuove “comunità immaginate” proposte dagli imprenditori politici dell’odio”.

Tutto ciò porta verso una critica non solo del capitalismo in generale, quanto soprattutto della globalizzazione, per cui a questo punto ci si chiede: in che modo e con quali regole? In altri termini in che modo si può governare la globalizzazione, la quale, come stiamo vedendo, sta producendo dei veri e propri terremoti degli assetti politici e culturali nell’ambito della governance degli Stati, ma soprattutto attraverso l’emarginazione di una grande fetta della popolazione mondiale, che sta subendo un processo di ineguaglianza sul piano sociale ed economico. Del resto oggi il cittadino europeo o occidentale non si riconosce più nel suo paese, tanto da pensare che il suo status sociale è in serio pericolo, dando la colpa non solo alla globalizzazione, quanto a fenomeni esterni quali l’emigrazione, oppure il surriscaldamento del clima, dovuto al consumo e all’utilizzo del carbon fossile nel processo industriale. Fenomeni che messi insieme, emigrazione, surriscaldamento climatico e perdita di autorità dello Stato, che è incapace di governare l’attuale crisi economico-finanziaria, portano, come abbiamo visto, a nuovi movimenti xenofobi e quasi razzisti, tanto da creare continue tensioni in campo sociale, economico e culturale, per non dire politico.

A questo punto R. Rajan propone il ritorno dell’economia al sociale e, quindi, al rispetto della Comunità. Cioè  ad una conciliazione positiva ed inclusiva fra Stato, Mercato e Comunità. Anche se ormai il processo della globalizzazione è così forte, che ben poche speranze ha l’uomo di governarla, se non fermare gradualmente tale processo, però a discapito dei paesi emergenti, come Cina, India e paesi indonesiani, che ormai vedono nella globalizzazione la sola via di sviluppo e di integrazione con i paesi occidentali.

In altri termini bisogna rivitalizzare le comunità basate sulla prossimità, in cui le persone siano considerate delle risorse. E questo può avvenire solo coinvolgendo la comunità nella fase decisionale. In altre parole la soluzione secondo R. Rajan è quella di dare maggiore peso alla società e, quindi, alla comunità,  che si deve riconoscere nel proprio luogo, in cui opera. In altri termini lo Stato dovrebbe decentrare molte competenze alle comunità locali, più capace di essere vicino ai cittadini. Dall’altro lato il mercato dovrebbe diventare più trasparente, concentrarsi sulla  creazione di valore piuttosto che di profitto e smettere  di sconfinare nella sfera politica ed etica, ripristinando in generale clima di fiducia nella democrazia e nella partecipazione del cittadino al “bene comune”.  

 

*Società di Storia Patria per la Puglia

 

 

Con le opere artistiche di Silvia di Iasio (in arte Silvia Lì) il passato diventa presente, attraverso un percorso che solo chi interpreta la nostra cultura attraverso i segni della storia, può carpirne i secreti dei popoli, che hanno lasciato le loro tracce nella pietra, segni tangibili di civiltà antiche, ma soprattutto segni che affondano le loro radici nelle tradizioni popolari, che si rifanno ai nostri progenitori, fra cui i Longobardi, i Bizantini, i Normanni, gli Svevi, gli Angioini, gli Aragonesi, le cui tracce oggi le possiamo ritrovare nei numerosi monumenti della città micaelica, Monte Sant’Angelo, ricca di storia e di cultura. Silvia di Iasio, attraverso la Mostra di oggetti artigianali, ci porta verso quei simboli che hanno caratterizzato la storia pugliese, ma soprattutto la civiltà garganica, di cui Monte Sant’Angelo ne rappresenta il cuore e il centro focale dei popoli europei, che per primo hanno assunto come loro protettore l’Arcangelo Michele. Un ritornare verso le nostre radici, in cui i segni del pellegrinaggio micaelico, legati per gran parte al Romanico Pugliese, hanno determinato quell’unità politico-culturale dell’Europa. Cultura, Arte e Religiosità


Silvia di Iasio

popolare che ritroviamo nei segni del culto micaelico e, quindi, nelle iscrizioni longobarde, presenti nelle cripte del santuario micaelico. Iscrizioni latine e runiche, queste ultime, antico alfabeto germanico, di cui Silvia con i suoi “gioielli” ne rappresenta i significati  e i segni della memoria.

   

Così come gli splendidi rosoni delle cattedrali pugliesi, fra cui il rosone della Tomba di Rotari, di Giovinazzo, di Terlizzi, di Bitonto, di Troia, di Ruvo, tutti incisi negli splendidi medaglioni  di Silvia di Iasio. Così come vengono riportate nella Mostra le orme di mani e piedi dei tanti pellegrini diretti al Santuario di San Michele, sulle cui pareti sono impressi i segni del pellegrinaggio micaelico. Segni che oggi vengono riprodotti in maniera magistrale attraverso le opere artistiche di Silvia di Iasio. Un mondo variegato, ma semplice nei suoi contenuti, tanto da creare le premesse per fare del nostro Santuario di San Michele un Sito UNESCO.


Silvia di Iasio

A questo punto ci domandiamo: chi è Silvia di Iasio? Quali sono state le sue prerogative per quanto riguarda tale riconoscimento? Certamente dobbiamo ricordare che Silvia è stata per diversi anni la Presidente del CLUB UNESCO e come tale ha fatto si che facesse conoscere attraverso Convegni e Seminari di Studi le bellezze artistiche  della città di Monte Sant’Angelo, con il suo ricco patrimonio culturale, tanto da creare le premesse per essere riconosciuta come uno dei borghi più belli d’Italia. Tutto ciò, bisogna specificare, nasce dell’amore di Silvia per la sua città e per la sua storia, tanto da  laurearsi in designer a Napoli e perfezionarsi, poi, successivamente presso il Politecnico di Milano. Da questa passione  di designer sono nate le sue collezioni di gioielli e poi  numerosi oggetti artigianali come le pietre semipreziose, legate all’artigianato locale e, quindi, alle tradizioni artistiche dei popoli che hanno colonizzato la Puglia e il Gargano.  Tutto ciò nella consapevolezza che solo chi possiede l’anima dei luoghi o il Genius Loci può carpirne i segreti e la bellezza artistica. Una dimensione che si acquista solo sul campo, specie chi vive a contatto con la sua gente, ma soprattutto chi conosce la sua  storia e la sua cultura. In  questo senso Silvia di Iasio è l’espressione più vera e genuina del nostro Genius Loci, il cui termine acquista un suo significato culturale e simbolico solo se lo si rapporta con la cultura dell’abitare e, quindi, con un luogo specifico, la cui identità si connette con la sua specificità storica e ambientale.

       

In questo caso il Genius Loci lo si rapporta con il luogo stesso, con la sua anima e con quello spirito o daimon di cui gli antichi solevano proteggere il luogo stesso attraverso la presenza del Genius Loci. In altri termini il Genius Loci si  prende cura dell’uomo e del suo ambiente e la sua influenza si estende attraverso la creatività dei suoi  oggetti, fra cui i monili e i gioielli, tanto da diventare essi stessi simboli di protezione con l’abitare. In questo senso Silvia di Iasio ne interpreta l’essenza stessa della nostra cultura e delle nostre tradizioni, legate in gran parte al significato del nostro Genius Loci.  Tutto questo lo ritroviamo nelle opere artistiche di Silvia di Iasio, che possiamo ammirare, fino al 2 Luglio 2021, nel Battistero di San Giovanni in Tumba a Monte Sant’Angelo. Una Mostra che si inserisce molto bene nell’ambito delle celebrazioni riguardanti il decennale del riconoscimento del Santuario di San Michele da parte dell’UNESCO (2011-2021), quale espressione della cultura longobarda in terra pugliese. Manifestazione che vede in primo piano l’Amministrazione Comunale di Monte Sant’Angelo e la Regione Puglia.

Afferma a tale proposto il Sindaco Pierpaolo d’Arienzo: “Da dieci anni la nostra città si fregia di un riconoscimento di pregio come quello dell’UNESCO che ci ha proiettato sulla scena internazionale e sul quale abbiamo basato il nostro brand #LaCittàdeidueSitiUNESCO. Un riconoscimento che ci riempie d’orgoglio e che merita di essere festeggiato con un grande evento”. Ma soprattutto, secondo noi,  attraverso la conoscenza diretta del nostro patrimonio culturale, legato alla civiltà longobarda e al culto di San Michele nel mondo, le cui tracce indelebili sono le iscrizioni latine e runiche, i rosoni delle cattedrali romaniche e i segni del pellegrinaggio micaelico, mani e piedi, che possiamo ammirare lungo le pareti del Santuario di San Michele. Segni tangibili di cui Silvia di Iasio, attraverso le sue opere artistiche,  ha saputo trasmetterci il significato e il senso vero e vivo del nostro Genius Loci. Del resto solo  con la riscoperta del proprio Genius Loci, la città può riprende, anche dopo l’attuale pandemia,  il suo cammino di civiltà e di cultura, in un percorso condiviso di scelte e di decisioni improntate alla legalità e alla giustizia sociale. E questo deve essere alla base di ogni programma politico-culturale specialmente riguardante la nostra città. In questo senso oggi si parla di “diritto alla città”, di città in evoluzione, di città condivisa, di città diffusa. Tutto questo ci porta a considerare l’abitare, con la sua comunità e la sua creatività artistica, come luogo privilegiato per manifestare il nostro amore non solo per la città, ma soprattutto per il nostro il territorio, inteso come paesaggio che si fa storia e cultura, attraverso la creatività dei nostri artisti.

GIUSEPPE PIEMONTESE Società di Storia Patria per la Puglia

 

In ricorrenza del decimo anniversario del riconoscimento del Santuario di San Michele sul Gargano, quale Sito UNESCO (25 Giugno 2011), vogliamo ricordare il rapporto che intercorse fra il nostro Santuario e i Longobardi, per capirne la portata storica, oltre che religiosa dell’evento. Con la presenza longobarda sulla scena politica italiana il culto micaelico subì una radicale trasformazione. Esso, da una portata prettamente locale, passò a coinvolgere, già alla fine del VII secolo, tutta la cristianità europea, con forte conseguenza sulle successive vicende del culto e sulla geografia ecclesiastica del tempo, specie per quanto riguarda la religiosità popolare dell’Italia altomedievale. Infatti “a partire dalla metà circa del VII secolo, il santuario garganico divenne il più famoso luogo di culto micaelico dell’Occidente latino. Esso fu meta di numerosi pellegrinaggi di personaggi illustri e di gente di ogni condizione ed estrazione sociale, proveniente anche da terre molto lontane: un fenomeno interessantissimo di fede e religiosità popolare che si è perpetuato sino ai nostri giorni” (Otranto 1990, p. 37).

I Longobardi e i Bizantini

La notorietà del santuario e l’enorme sviluppo del culto micaelico del Gargano si devono alla comparsa dei Longobardi, che attraverso la fondazione del ducato di Benevento, si espansero verso il sud, allo scopo di avere sbocchi non solo nel Tirreno, ma anche nell’Adriatico. In questo progetto di espansionismo territoriale, i Longobardi si scontrarono con i Bizantini, che avevano il loro protettorato sulla Puglia settentrionale, specie a Siponto e sul santuario garganico.

Il primo contatto fra i Longobardi e il santuario garganico, secondo le fonti a nostra disposizione, avvenne intorno al 650, nel segno della lotta antibizantina condotta dal “bellicosissimo” Grimoaldo. Già precedentemente, però, i duchi beneventani, Aione e Radoaldo, nel 642, erano giunti in territorio sipontino per infliggere una dura sconfitta agli Slavi, che, secondo Paolo Diacono, erano sbarcati sulle coste adriatiche (Historia Langobardorum, in MGH,  Scriptores, cit., p. 135).

Con Grimoaldo I, duca di Benevento (647-671), il progetto di impadronirsi del santuario garganico, a danno dei Bizantini, divenne realtà, allorquando i Greci, desiderosi di riaffermare il loro dominio sul Gargano,  dopo la sconfitta degli Slavi ad opera dei duchi longobardi, tentarono di saccheggiare “oraculum sancti archangeli in monte Gargano situm”, ma questi vennero prontamente respinti da Grimoaldo, che ne assunse la protezione. Questo episodio  (la vittoria dei Beneventani-Sipontini sui Napoletani-Greci) sarebbe stato successivamente oggetto di amplificazione politico-religiosa nel testo dell’Apparitio, che fu leggermente ritoccato in ambiente longobardo. E infatti dopo la vittoria di Grimoaldo entrerà nella tradizione micaelica la data dell’8 maggio, come dies festus della vittoria, in concomitanza con il 29 settembre, giorno della dedicazione della Basilica.

 

 
Cripta B. Scala diritta e “tortuosa”

Con Grimoaldo ebbe inizio così quel rapporto duraturo e pieno di conseguenze tra il santuario garganico e la monarchia longobarda, che determinerà la diffusione del culto micaelico nell’Italia settentrionale, attraverso la fondazione di numerose chiese dedicate a S. Michele, fra cui la costruzione della chiesa palatina di S. Michele a Pavia e diverse altre chiese a Milano. Inoltre, sul piano politico-religioso, l’assunzione del culto micaelico divenne per i Longobardi un mezzo per diffondere e propagandare il cristianesimo fra la gente longobarda, ancora restia alla conversione. In un certo qual senso, afferma G. Otranto, il culto di S. Michele divenne un instrumentum regni per l’unità di tutti i sudditi longobardi. Altrettanta devozione ebbero i successori di Grimoaldo, dai duchi beneventani Romualdo I (662-687) e Romualdo II (706-73), ai re di Pavia, Perterito e Cuniperto. Romualdo I e sua moglie Teodorata si fecero promotori di un vasto programma di diffusione del culto micaelico nell’Italia meridionale.

 

Cripte longobarde

Teodorata venne chiamata la Teodolinda del Sud e contribuì in maniera determinante alla conversione del marito Romualdo che ancora praticava alcuni riti pagani, fra cui quello dell’adorazione del serpente. Sarà proprio sotto il loro regno, infatti,  che nel 663 il vescovo beneventano Barbato chiese ed ottenne di poter estendere la propria giurisdizione sul santuario micaelico e su tutti i possedimenti della diocesi di Siponto (Vita  Barbati episcopi Beneventani, in MGH,  Scriptores, cit.,  pp. 560-561). Inoltre con Romualdo I si ebbe una completa ristrutturazione del santuario che comportò l'abbattimento di alcune pareti rocciose di ostacolo alla circolazione, la sistemazione di due lunghe scale (una "diritta" e una "tortuosa") per il flusso e deflusso dei pellegrini e la creazione di posti di accoglienza e ricovero, tra i quali una lunga galleria,che doveva forse fungere da hospitium nella quale si accedeva, da ovest, da un ingresso riconosciuto, appunto, come longobardo per via delle tante iscrizioni graffite sui conci della facciata. Di tali modifiche strutturali, che conferivano al complesso un aspetto del tutto nuovo, rimane testimonianza in alcune epigrafi ancora oggi leggibili sulle strutture del santuario.

Il re Cuniperto (688-700), successore di Grimoaldo, fu il più devoto dell’Arcangelo e il più attivo nel diffondere il culto. Egli fece rappresentare il Santo guerriero sugli scudi, evidentemente per assicurare ai suoi successi. Inoltre fece coniare sulle monete l’effigie del Santo con gli attributi guerrieri della lancia e dello scudo. Tutto ciò, evidentemente, serviva a “trasformare una devozione tipicamente orientale e con caratteristiche puramente devozionali e taumaturgiche, quale era in origine quella micaelica, in un culto esasperatamente nazionalistico e guerriero, quale essa divenne a contatto con la cultura longobarda” (Petrucci 1971, p. 345).

I risultati degli scavi archeologici avvenuti nella basilica altomedievale hanno confermato sostanzialmente quanto fino a non molti anni addietro si poteva immaginare solo attraverso le fonti letterarie. Oggi invece si ha un vero e proprio corpus di iscrizioni altomedievali, unico in Europa, riguardante la storia di un unico complesso monumentale, quale fu quella inerente il culto micaelico in età longobarda. Le iscrizioni sono una preziosa documentazione  relativa alla gran massa di semplici pellegrini che singolarmente o in gruppo, si recavano in visita alla sacra grotta. Si tratta complessivamente di più di 200 iscrizioni tracciate a sgraffio o incise sulle strutture murarie interne ed esterne del santuario micaelico. Esse riportano nomi di sicura origine longobarda,  come Afridus, Ansipertus,  Arechis, Auderada, Cunualdus, Ildirisi, Rumildi, ecc.; e nomi di origine germanica, in caratteri runici, come Hereberecht, Wighus, Herraed, ecc. Di essi spesso è possibile conoscere anche la provenienza e lo stato sociale, come nel caso di un certo Arricus che si aggiunge al proprio nome de Marsica (Abruzzo), o di un Leo che si qualifica de Bergamo ed infine di un  Eadrhid, vir honestus. “Nessuna delle iscrizioni, afferma C. Carletti, come chiaramente indicano il formulaio l’onomastica, la paleografia, può considerarsi anteriore al VII sec.: in definitiva l’intera documentazione epigrafica, che peraltro si presenta come un insieme sostanzialmente omogeneo, si inquadra in piena età longobarda. Questi i limiti cronologici: da una parte l’età di Grimoaldo I (647-671) e di suo figlio Romualdo I (662-687), i quali come si vedrà sono esplicitamente ricordati in alcune delle iscrizioni, dall’altra l’869, anno in cui i Saraceni, stanziati a Bari, sotto la guida dell’emiro Sawdan ad ecclesiam sancti Michaelis in monte Gargano perrexerunt, et clericos eiusdem ecclesiae multosque alios qui ad orationem convenerant depredantes, cum multa spolia ad sua redierunt” (Carletti 1980, p. 11).

 

Santuario di S. Michele. Iscrizioni latine.

Tra le iscrizioni di apparato segnaliamo alcune di rilevante importanza per la storia del nostro santuario. Una si trova all’inizio della scala tortuosa, su un pulvino del pilastro, un punto di passaggio obbligato per i pellegrini che si accingevano a visitare il sacro speco. Vi si legge:

+ de donis dei et sancti archan

+ geli fiere iusse et donavit

+ Romouald dux agere pietate

+ Gaidemari fecit

(Spinto dalla devozione, per ringraziamento a Dio e al santo Arcangelo, il duca Romualdo volle che si realizzasse e ne fornì i mezzi. Gaidemari fece).

In questa iscrizione, da riferirsi certamente a Romualdo I, duca di Benevento fino al 687, viene messo in risalto la devozione della stirpe beneventana per l’Arcangelo Michele che si distinse anche per la realizzazione di opere all’interno del santuario.

Un’altra iscrizione richiama la figura di Romualdo I e della di lui moglie Gumperga in visita al santuario garganico:

+ Gabriel angelus qui bos protegad

+ Rumuualdu dux

+ Gumperga

+ deus  iudicium tuum regi da et iustitia tua

+ filiu regi

(L’Angelo Gabriele vi protegga, duca Romualdo, Gumperga. Dio dà al re il tuo giudizio e al figlio del re la tua giustizia).

 

Santuario di S. Michele. Iscrizioni latine.

Romualdo II fu duca di Benevento dal 706 al 731 e, succedendo al padre Gisulfo, sposò in prime nozze Gumperga, figlia di Aurora, sorella del re Liutprando. Le ultime due righe riportano testualmente i primi due versetti del Salmo 71, che si configura come una preghiera a Dio affinché conceda a Romualdo II la capacità di ben governare e al figlio, il futuro duca Gisulfo II (742-751), nato dal matrimonio con Gumperga, il senso della giustizia.

Di dubbia interpretazione è l’altra iscrizione che si trova sulle strutture murarie del santuario:

+ hic patri eius regni cumsortior

+ erector sic terrena sumtsit

+ celestia numquam relinquit

Secondo il Carletti l’iscrizione si riferirebbe al fervore di opere che si manifestò sotto il regno di Grimoaldo I (647-671), il quale, essendo re di Pavia, associò nel suo regno (cumsors) il figlio Romualdo I (663-687), duca di Benevento. Mentre, secondo G. Otranto, l’iscrizione sarebbe da riferirsi a Pertarito e al figlio Cuniperto.  Pertarito divenne re dei Longobardi nel 671 e dopo sette anni, secondo il racconto di Paolo Diacono, si associò al regno come co-reggente, il figlio Cuniperto, col quale condivise la responsabilità della reggenza per ben 10 anni. Secondo una tradizione locale, Cuniperto, dopo aver sconfitto, con la protezione dell’Arcangelo, il duca Alahis, nel 691 si sarebbe recato in pellegrinaggio al santuario garganico.

Lungo le pareti delle cripte, oltre alle iscrizioni, troviamo sovrapposto un intero ciclo di affreschi, di cui sono attualmente visibili solo rari frammenti, fra cui il Custos Eclesiae.

 

Monte Sant’Angelo, Santuario di San Michele, Custos Eclesiae.

Questo fervore di opere religiose, nei confronti del santuario micaelico da parte dei Longobardi, sta a testimoniare che alla fine del IX secolo il santuario garganico aveva raggiunto una dimensione europea, verso il quale, come si evince dal ritrovamento di iscrizioni runiche, si dirigevano pellegrini provenienti non solo dal territorio italico, ma anche dall’area franca e dalle isole anglosassoni. Inoltre l’insediamento cultuale micaelico, d’altra parte, veniva a trovarsi nella grande direttrice del pellegrinaggio altomedievale europeo, che aveva come principali poli di attrazione  Roma e Gerusalemme, i due grandi centri della religiosità occidentale ed orientale. Un pellegrinaggio micaelico che avrà come percorso principale la cosiddetta Via Sacra Langobardorum, che univa in maniera sincretica l’Occidente all’Oriente, attraverso la Via Francigena, la Via Romea e la Strada di Gerusalemme. La Via Sacra Langobardorum o Via Micaelica, oggi denominata anche Via Francigena del Sud, faceva da cerniere o da trade union fra i grandi itinerari fede, secondo il trittico HOMO, ANGELUS, DEUS. In altre parole, afferma G. Otranto: “L'epoca longobarda si   può considerare un'epoca di rifondazione e di rilancio del santuario garganico dell'Angelo, il quale, con le sue strutture monumentali, con le diverse soluzioni architettoniche adottale nel corso dei secoli soprattutto da Longobardi, Normanni e Angioini, con le sue epigrafi, i segni e i simboli, nei quali si sono fissati immaginario popolare e tradizione letteraria colta, rappresenta uno di quei pochi loca sanctorum altomedievali ancora in grado di attestare una non usuale continuità storico-cultuale e una intensa frequentazione sino ai giorni nostri”.

*Società di Storia Patria per la Puglia

 

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